“I crimini di guerra seguono sempre lo stesso copione. La ferocia umana non cambia mai, si ripete uguale al di là di latitudini ed epoche storiche. Il bene ha molte sfumature, il male non ne ha”. Così Agnese Pini, giornalista direttrice de La Nazione e di tutti i quotidiani del gruppo Monrif, commenta la tragica analogia tra i massacri in Ucraina, in Medio Oriente e quelli perpetrati dai nazifascisti negli anni 40. Questa analogia è stata una delle ragioni che hanno spinto la Pini a riaprire un capitolo doloroso della sua storia personale: l’eccidio compiuto dai tedeschi a San Terenzo Monti, nell’estate del ‘44, in cui è morta la sua bisnonna. Ne scrive in un libro, a metà tra romanzo e memoir, pubblicato da Chiarelettere, Un autunno d’agosto.
“Questa storia appartiene ai ricordi della mia infanzia, me la raccontava mia nonna quando ero molto piccola - è morta che avevo 11 anni - e lo faceva con quella semplicità e quell’efficacia della fiaba, fiaba nera in questo caso. Dunque, qualcosa che ti arriva e ti si conficca dentro ma resta a metà tra il reale e l’immaginifico. Quando ho iniziato a scriverla, invece, quasi 30 anni dopo, ho dovuto compiere uno sforzo razionale: dare un ordine logico a quelle che erano suggestioni quasi fiabesche. Questo è stato emotivamente molto faticoso e doloroso”.
Cosa l'ha spinta a farlo?
Un insieme di fattori esterni ed interni. Questi ultimi rispondono alla domanda quanto tempo ci si mette a fare i conti con se stessi e con il proprio passato. Sono tempi diversi per ciascuno di noi, ma arriva per tutti il momento di voler capire chi si è e da dove si viene. Sono domande essenziali; cercare una risposta è un regalo - di tempo e di spazio - che facciamo a noi stessi. Scrivere questo libro è stato il mio regalo. A questo impulso emotivo, si è aggiunta una concatenazione di fatti, più o meno casuali, che hanno a che fare con la cronaca e con il mio mestiere di giornalista. Il primo, che racconto nel libro, è un incontro avvenuto 5 anni fa, quando fui nominata direttrice della Nazione. Mi scrisse, per congratularsi, un collega giornalista, Roberto Oligeri, che viene proprio dal paesino di mia nonna, San Terenzo Monti. Questa cosa mi colpì moltissimo perché, per la prima volta, qualcuno che non faceva parte della cerchia familiare, mi ricordava le mie origini. Considera che la mia famiglia, come molte altre, andò via da quei luoghi subito dopo la strage - i luoghi delle stragi sono destinati all’abbandono e all’oblio. Ma si trattava di un paesino piccolissimo dove ci si conosceva tutti. Quindi chiacchierando con questo collega, venne fuori che lui sapeva tutto della mia bisnonna e io sapevo tutto della sua famiglia. Anche loro avevano avuto lutti pesanti. Nell’eccidio, morirono la prima moglie di suo padre e i primi 5 figli. Oligeri è stato uno dei primi a dirmi che dovevo tornare lì e scriverne. Questo succedeva nel 2019; ci ho messo più di tre anni a decidermi. L’altro fatto, invece, è legato alla stretta attualità, in particolare allo scoppio della guerra in Ucraina. Per motivi professionali, mi sono trovata a parlare della strage di Bucha, il primo crimine documentato di questo conflitto. Così mi sono accorta di una cosa tremenda: i crimini di guerra seguono sempre lo stesso copione. La ferocia umana non cambia mai, si ripete uguale al di là di latitudini ed epoche storiche. Il bene ha molte sfumature, il male non ne ha. Gli orrori di Bucha replicavano schemi identici a quelli che avevo sentito nei racconti della mia infanzia su San Terenzo. Questa assonanza mi ha spaventata moltissimo e mi ha aperto porte temporali che mi hanno portato a fare i conti con le mie origini”.
Se gli errori/orrori continuano a ripetersi uguali, che valore ha la memoria?
Questa è la terribile domanda che molte volte mi sono posta scrivendo il libro. La prima risposta che mi passava per la testa era di un pessimismo più che cosmico. Mi veniva da dire che la memoria, la storia sono inutili. Non servono a evitare che le cose riaccadano. Penso che il pessimismo sull'inutilità della storia sia il pessimismo più totalizzante che esista, perché il passato è l’unica eredità certa che abbiamo. Ciascuno di noi, anche chi non possiede nulla, ha in eredità almeno il proprio passato e se questo non ti lascia niente di buono sei davvero perduto. C’è una poesia di Montale che dice la storia non è magistra di niente che ci riguardi. Ecco, io penso che ciò sia vero, che la storia non insegni. Tuttavia, ho capito che non è inutile, anzi, tutt'altro. Ci aiuta a capire di che cosa siamo capaci: cosa può diventare l’uomo in contesti estremi come le guerre, in cui cade ogni riferimento morale. Le oscenità commesse nel ‘44, come oggi in Medio Oriente, in Ucraina e in altre parti del mondo, mostrano i picchi estremi della bestialità umana: uccidere bambini, stuprare, ammazzare donne incinte, bruciare, saccheggiare, torturare. Vedere cosa possiamo diventare ci toglie ogni alibi e ci mette nella condizione di scegliere. Nessun soldato è obbligato, nemmeno dal codice militare, a uccidere donne e bambini, a stuprare e torturare. Può scegliere di non farlo.
Ciò che sicuramente è cambiato dagli anni 40 a oggi, però, è l’informazione: la circolazione delle notizie e gli strumenti con cui avviene. Che ruolo gioca la moderna informazione rispetto agli eventi?
L’informazione oggi ha un ruolo centrale. Facciamo l’esempio dell’Ucraina; si tratta della prima guerra social-mediatica dei nostri tempi, dal punto di vista più intimo del conflitto. La famosa foto della donna incinta, fuori dall’ospedale di Mariupol, non è che l'intimità della guerra finita sul nostro Instagram in presa diretta, nel momento esatto in cui accade. E noi siamo lì, con quella ragazza. Questo non era mai successo prima e ci dà una sensazione vera solo parzialmente a cui bisogna fare estrema attenzione. Ci fa credere di poter conoscere e controllare la guerra nel preciso momento in cui si consuma, come se appunto fossimo lì. È il meccanismo tipico dei social network. Poi, però, c’è Bucha. Qual è la particolarità: veniamo a sapere della strage i primi di aprile, grazie a un’inchiesta del New York Times che ne documenta gli orrori (più di 500 morti, camere delle torture, donne, bambine, anziani ammazzati ecc). In realtà, quei fatti avvengono almeno 2 o 3 settimane prima, senza che noi possiamo saperlo, vederlo e documentarlo. E non è un caso: il crimine di guerra si consuma sempre al riparo dagli occhi, in ogni epoca. Questo ci dice come sia sbagliata la percezione di poter dominare la verità solo tramite il web. La supremazia del vero è una cosa molto delicata, che sui social assume tratti quasi fideistici. Ecco perché resta fondamentale il giornalismo tradizionale; perché fa della ricerca della verità uno strumento laico, con regole specifiche, abbastanza scientifiche, nonostante limiti e possibili errori. Fare il giornalista è un mestiere, comporta studio, impegno. Bisogna iscriversi a un ordine professionale, star dentro una griglia deontologica con norme e sanzioni. Non ci si può improvvisare, come per qualunque altro mestiere. Dunque, non si capisce perché oggi chiunque possa scrivere sui social e attribuirsi l’autorevolezza di un giornalista.
La facilità di accesso alle notizie, attraverso i social, però, può contribuire, secondo lei, a costruire una coscienza di massa in maniera più incisiva rispetto a quanto succedeva prima, per esempio nel ventennio fascista?
Tantissimo, i social sono strumenti molto potenti in grado di cambiare le sorti dell'umanità, come fu il fuoco nel paleolitico. E proprio come quest’ultimo, vanno maneggiati con cautela, altrimenti rischiano di diventare controproducenti. Con i social, c’è il serio pericolo che la coscienza critica dell’individuo e della collettività si costruisca su dei falsi clamorosi. Ecco perché è fondamentale mettere dei paletti. È un falso mito che l’assenza di regola rende liberi. No! Rende qualcuno più furbo degli altri per poter fare ciò che vuole, a discapito di chi non se ne rende conto. I social sono uno strumento meraviglioso, come il fuoco, ma se non regolati diventano delle trappole drammatiche, come gli incendi in un bosco.
Tornando al libro, emerge un concetto molto bello e prezioso per i nostri tempi: quello di resistenza civile nella dimensione più piccola, intima e familiare.
Scrivere questo libro è stato molto utile per me, perché mi ha aiutata a capire che non esiste solo la resistenza con la “R” maiuscola, quella guidata da precisi obiettivi/ideali politici. Esiste il desiderio di libertà che riguarda tutti, indistintamente: lo senti sgorgare dentro di te, quando hai in “casa” un invasore (che può declinarsi in vario modo), indipendentemente dal tuo credo politico, dal grado di istruzione, dalle capacità, dalle finanze. È qualcosa di innato. La storia che racconto parla degli ultimi degli ultimi, l’anello finale della catena alimentare della guerra. I miei bisnonni erano persone poverissime, contadini analfabeti, senza particolari idealità politiche. Pensavano a sopravvivere, a cavarsela giorno per giorno. Ma volevano essere liberi. Questa è la resistenza con la “r” minuscola; non perché sia meno importante ma perché ha meno voce nei libri di storia, nei racconti, nella narrazione dominante. La resistenza di chi sente dentro di sé di voler essere libero. È un desiderio profondamente umano, che appartiene a ciascuno di noi dal momento in cui nasciamo; quando ci tolgono la libertà, soffriamo e cerchiamo di resistere. Lo facciamo tutti, anche se non saliamo in montagna con un fucile in mano.