Al Libro Possibile Winter, Matteo Bassetti ha presentato il suo ultimo saggio Il mondo è dei microbi (Piemme), davanti a una platea di oltre duecento ragazzi, e non solo. L’incontro si è svolto nella splendida cornice di Vieste, al Cineteatro Adriatico. Il noto infettivologo, diventato volto televisivo e punto di riferimento durante la pandemia, ha affrontato temi ormai imprescindibili per la vita di tutti noi.
Partiamo dal titolo del suo libro: Il mondo è dei microbi. Cosa vuole dirci.
Vuole dirci che il mondo è loro. Sono più di noi, si riproducono più velocemente, occupano più spazio, conoscono meglio l’ambiente perché sono sulla Terra da milioni di anni prima di noi. Il mondo è più loro che nostro. Questo, però, non deve terrorizzarci; deve farci capire che possiamo convivere con loro, conoscendoli meglio. I microbi non sono sempre negativi. Come lievito, per esempio, ci consentono di avere pane e focaccia; o vino e aceto. Non dobbiamo, quindi, considerarli sempre nemici. Lo diventano soprattutto se li trattiamo male, come facciamo con gli antibiotici: un cattivo uso, fa sì che questi diventino più forti e si ribellino a noi. Il mio libro vuole portare alla consapevolezza che con i microbi si può convivere.
Se il mondo è dei microbi, lei ha parlato dell’importanza di un’educazione sanitaria. A che punto siamo e quanto abbiamo ancora da fare?
Io credo che i due anni di Covid abbiano fatto agli italiani un corso accelerato di educazione sanitaria, e anche di educazione civica, che forse mancava prima. Vedere i ragazzi in sala, qui a Vieste, così interessati mi ha fatto capire quanto sia importante andare nelle scuole a parlare anche di malattie infettive, oltre che di tanti altri aspetti dell’educazione sanitaria. Ritengo che ci siano alcuni capisaldi da cui partire: i vaccini, è importante che i ragazzi imparino la cultura vaccinale già dalla scuola; come usare bene gli antibiotici; e altre misure generali per evitare che questi piccoli nemici invisibili diventino peggio di ciò che sono stati fino ad oggi.
A proposito di Covid, in che fase ci troviamo?
Ci troviamo in una fase di convivenza col virus, una fase diventata ormai endemica. Abbiamo moltissimi casi ogni giorno. È come se camminassimo su un altipiano a 500 metri sul livello del mare. Non siamo a zero, non siamo altissimi come in passato, ma viaggiamo comunque su numeri molto elevati. Ci dovremo abituare ad avere picchi e discese anche nei prossimi mesi, ma se non torniamo a un aumento di ricoveri ospedalieri, e quindi di forme più gravi, direi che raggiungeremo una forma di convivenza forzata con il virus, nella quale potremo riprendere alcune abitudini del passato. Non dobbiamo dimenticarci, però, che gli strumenti che abbiamo imparato a usare fino ad oggi dovranno diventare i nostri compagni di viaggio. Allora, porteremo la mascherina non più per obbligo ma perché pensiamo sia utile. Me la tengo in tasca e, come metto gli occhiali quando non riesco a vedere il menù al ristorante, così metto la mascherina quando c’è un assembramento. Non perché - ripeto - se non la metto qualcuno mi fa la multa, ma perché ho imparato realmente che è uno strumento importante.
Dovremo abituarci anche al vaccino…
Io credo che il vaccino per Covid sarà un vaccino annuale; dovremo fare un richiamo annuale. Quindi, io che mi sono vaccinato, come molti, nel novembre 2021, verosimilmente farò una dose di richiamo nell’ottobre/novembre 2022. Quel che mi auguro – e ci auguriamo tutti – è che intanto la ricerca metta a disposizione un vaccino in grado di coprire meglio le varianti.
In questi giorni si è discusso molto dell’aumento delle spese militari, per le spese sanitarie come siamo messi?
Sono rimasto molto colpito che, dopo 2 anni di pandemia, abbiamo investito 19 miliardi di PNRR per la sanità. Sono tanti soldi ma non sono niente rispetto a quello che si è deciso di mettere, in un paio di giorni, su spese militari e armi. Allora io credo che ci sia un certo squilibrio, soprattutto per quanto è capitato nel nostro Paese. Non siamo stati in grado, in questi due anni, di investire abbastanza in sanità, in ricerca. Ne è prova il fatto che se domani arrivasse una nuova epidemia noi saremmo esattamente dove eravamo nel marzo 2020. I posti in terapia intensiva sono rimasti gli stessi, gli ospedali – ahimè - sono gli stessi, il sistema sanitario è rimasto lo stesso. Il problema atavico dell’incapacità di parlarsi, tra il territorio e l’ospedale, è rimasto quello. Quindi penso che sugli investimenti in sanità si potesse fare molto, molto di più.
Ma qualcosa l’abbiamo imparata da questo Covid?
Io penso di sì. Gli italiani hanno imparato alcune cose; per esempio a lavarsi le mani, che è fondamentale. Prima del 2020, eravamo probabilmente uno dei Paesi che si lavava meno le mani. Oggi, abbiamo imparato a lavarcele, nel lavandino o con i gel alcolici che abbiamo imparato a portarci dietro. Abbiamo imparato che uscire di casa e andare a lavoro con 40 di febbre non ci deve far sentire eroi ma ci deve far sentire un pericolo per la salute degli altri. Abbiamo imparato – quantomeno la maggior parte di noi - che bisogna vaccinarsi, non solo contro il Covid, ma contro tutte le malattie infettive che si possono prevenire con un vaccino. Abbiamo imparato che è meglio vaccinarsi che ammalarsi; perché con la malattia non sai cosa ti può capitare mentre con un vaccino sai, in qualche modo, quali sono gli effetti collaterali. Abbiamo imparato a distanziarci, a evitare di fare le code all’italiana. Il Covid, in sostanza, ci ha insegnato alcuni comportamenti che altri Paesi già adottavano, che noi non adottavamo e che questi due anni spero ci abbiano lasciato.
Aggiungerei che il Covid ci ha insegnato ad ascoltare gli esperti. Durante la pandemia, lei ha frequentato diversi talk-show televisivi, dove il sapere è messo a confronto con le opinioni. Quant’è difficile fare informazione in mezzo a tanto opinionismo?
È molto difficile! Ne è prova il fatto che io tante volte ho perso la pazienza, forse sbagliando. Ma vedere il sapere confutato dall’opinione è qualcosa che certamente a me non è piaciuto, come non è piaciuto a nessun medico. Perché per andare a dire certe cose in televisione, un uomo di scienza, di medicina, ha studiato tanti anni. Non su google, non su facebook, non su instagram, non su twitter, ma sui libri. C’è l’esperienza, c’è il lavoro di tutti i giorni. Quindi, quando ci si vede contrastati nel proprio pensiero da persone che non hanno né arte né parte, e ci si trova messi tutti sullo stesso piano solo per creare bagarre e avere più audience, e beh questo sicuramente fa male.
Io credo, mi auguro, che i virologi in televisione - che in qualche modo hanno monopolizzato questi due anni - abbiano portato un messaggio per i ragazzi: se studi, se ti impegni, non c’è soltanto l’avvenire del calciatore, ma si può diventare famosi e piacere anche con altre professioni, per traguardi perseguiti con dedizione e serietà.