“Le bambine di oggi sono ancora immerse in un orizzonte simbolico stereotipato” dice Michela Marzano prima di citare la fiaba della Bella addormentata nel bosco come esempio linguistico del paradigma dello stupro. Poi continua “bisogna aiutare le donne a prendere consapevolezza di sé (…); imparare ad accogliersi, a coccolarsi, a perdonarsi ciò per cui non ci sarebbe nemmeno bisogno di perdonarsi”. Sono i temi che la filosofa affronta nel suo ultimo romanzo “Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa” (Rizzoli); temi che ancora oggi fanno discutere, in un contesto europeo che fatica a superare la cultura patriarcale.
Michela, lei è filosofa e accademica; come mai ha scelto la forma del romanzo per affrontare argomenti così delicati. Qual è, secondo lei, il ruolo della letteratura?
Ho iniziato a rendermi conto che la forma del saggio non mi bastava quando ho seguito la mia naturale tendenza a trattare tutte quelle tematiche un po’ eticamente sensibili: il tema della perdita, del dolore, della salute mentale e, da ultimo, quello della violenza di genere. Mi sono accorta che sono temi sui quali la mera argomentazione, a un certo punto, diventa stretta. Non si riesce a incasellare tutto in una struttura rigida, in cui si parte da un’ipotesi e si usano gli strumenti classici della filosofia, e della saggistica più in generale, per dimostrare quell’ipotesi. Arriva un momento in cui capisci che l’unico modo per toccare determinati argomenti è quello di mostrare attraverso il racconto. Mi è accaduto la prima volta quando sono passata alla forma del romanzo con ‘L’amore che mi resta’. Il tema del lutto, quando si tratta di un genitore che perde un figlio, non può essere trattato semplicemente argomentando. Basti pensare che quando un figlio perde un genitore è orfano, quando si perde un marito/compagno o una moglie/compagna si è vedove o vedovi, ma quando una madre o un padre perdono un figlio manca proprio un termine per definire questa condizione. A partire da allora, mi sono resa conto di quello che diceva Umberto Eco: quando non si può più argomentare, bisogna raccontare, bisogna mostrare. È questo è stato per me importante nel trattare il lutto, l’Alzheimer o le violenze, gli stupri; tutte tematiche che hanno bisogno di permettere al lettore/alla lettrice di identificarsi. Ecco perché la forma romanzo.
La letteratura crea empatia, crea un legame che può risultare più efficace anche nel sensibilizzare su certi temi rispetto a un saggio che, invece, mette distanza...
Esatto il saggio mette distanza. Mentre la letteratura, grazie a quell’identificazione che viene spontanea nel momento in cui si seguono i personaggi, fa sì che i lettori siano trascinati proprio dentro fino a rievocare, talvolta, cose che loro stessi hanno vissuto.
Il suo ultimo romanzo parla di violenza di genere, focalizzandosi sul delicato elemento del consenso. Proprio su questo, si è creata una grave spaccatura tra i Paesi membri dell’UE che ha portato alla cancellazione dalla direttiva sulla violenza di genere dell’articolo 5 (articolo che definiva il reato di stupro come atto sessuale senza consenso). Tra i Paesi che hanno rifiutato tale norma, c’è la Francia dove tu insegni. Come commenti questa posizione?
È, purtroppo, ancora una volta una contingenza politica. Il ministro della giustizia francese ha deciso di portare avanti questa posizione, inammissibile a mio avviso, perché adesso in Francia è un momento di grande fioritura del ‘me too’, arrivato anche qui nell’ambito dello spettacolo. Proprio qualche giorno fa, alla cerimonia di attribuzione dei César, un’attrice ha preso parola per denunciare tutte le volte in cui ha dovuto cedere, laddove cedere non vuol dire acconsentire. Si tratta di abuso di potere, di abuso tout court da parte degli uomini, registi o produttori - che poi si estende a qualunque categoria. Allora, poiché in Francia è in atto un dibattito molto virulento su questo tema, a partire anche dal caso Depardieu (ndr: nonostante l’attore sia accusato di violenza e stupro, Macron l’ha celebrato come ‘un orgoglio per la Francia’, scatenando aspre polemiche), il ministro della giustizia ha rivendicato la sovranità di ogni Stato in materia penale. Tuttavia qui non si trattava di lasciare all’Europa il potere di decidere che tipo di norme vadano varate in ciascun Paese, ma si trattava solo di dare un’indicazione; si trattava di prendere atto della necessità di riconoscere alle vittime di stupro un pieno statuto. Questo perché in Francia, come in Italia, l’attuale formulazione della norma contro lo stupro, ma anche di quella contro lo stalking, addossa alla vittima l’onere di dimostrare che ha subito violenza o minaccia. L’idea di questa direttiva, invece, era spingere gli Stati a invertire l’onere della prova; far in modo che siano gli accusati a dover dimostrare che il consenso fosse presente. Quindi la cancellazione dell’articolo 5 è qualcosa di insopportabile perché, nonostante tutto ciò che succede e che è successo, nonostante il fatto che ormai, sempre di più, le giovani donne iniziano a essere consapevoli del proprio valore e vorrebbero poter essere difese, di fatto le normative non lo consentono e continuano a schierarsi dalla parte di alcuni uomini violenti e abusanti.
Che reazione si è innescata in Francia rispetto a questa posizione del ministro?
Consideriamo che la cerimonia dei César è recente, dunque si tratta di un tema molto caldo. Da un lato c’è chi vuole mantenere lo status quo; c’è chi continua a dire che le donne stanno esagerando, che fra un po’ non sarà nemmeno più possibile per gli uomini cercare di sedurre una donna. Dall’altro lato, le donne stanno iniziando a dire basta. Si è acceso, quindi, un dibattito molto duro su tutta la questione della liberazione sessuale; questa è stata fondamentale per uscire da alcune dinamiche ma poi, di fatto, si è tradotta con la libertà degli uni che non va di pari passo con la libertà delle altre. La reazione oggi in Francia è forte, per fortuna! Le giovani donne vogliono smontare la cultura dello stupro mentre le persone che detengono il potere dicono che ‘cultura dello stupro’ è un’espressione fuorviante e negano l’esistenza del patriarcato, che invece c’è ancora.
Dal suo libro emerge chiaramente come spesso, sin da piccole, si sviluppi nelle donne un’idea del proprio corpo che contempla in qualche modo il trovarsi a “cedere” talvolta, per essere accettate. Quanto questo, secondo lei, è un fattore culturale e quanto è qualcosa di più atavico, legato al rapporto tra i sessi?
Il problema della cultura dello stupro è che è secolare. Da sempre si è ragionato, e si è organizzata la società, in maniera dicotomica. Quando il pensiero filosofico è nato come dualismo tra anima e corpo, tra pensiero e materialità, al tempo stesso si è dicotomizzato il rapporto tra i sessi. Il maschile è stato riportato al pensiero, alla razionalità, e il femminile alla materialità, al corpo; con una supremazia del maschile sul femminile. Dunque quando si parla di cultura dello stupro si parla di qualcosa che si è accumulato nel corso dei secoli, che ha fatto sì che le donne non potessero studiare filosofia, non potessero scrivere romanzi, non potessero votare. Poi, pian piano, le donne hanno iniziato un processo di autonomizzazione, lungo e faticoso, che però di fatto non si è ancora compiuto. Le bambine di oggi sono ancora immerse in un orizzonte simbolico stereotipato, a partire dal linguaggio. Non è un caso che, nel mio libro, abbia scelto di discutere una fiaba come ‘La bella addormentata nel bosco’. Io stessa son dovuta arrivare a 50 anni per rendermi conto che qui c’è la tipologia propria dello stupro. Infatti, alla fine della fiaba, quando si dice che Aurora era così bella che il principe non poté non baciarla, si insinua l’idea che poiché una donna è talmente bella, l’uomo non si può fermare. E così, allora, poiché una donna ha bevuto tanto, le sta bene ciò che le succede. L’idea che di fatto ci sia una responsabilità; una colpa da parte del femminile e un desiderio maschile che non si può fermare. Se noi continuiamo - dico noi perché io per prima - a crescere con questa idea, a credere che l’uomo è superiore e ci si deve sottomettere, che non si può che cedere e che va bene così perché le fiabe ce lo hanno mostrato, è chiaro che si sviluppino rapporti tra sessi fortemente squilibrati.
Altro grande tema nel suo libro è quello della colpa. Se dico ‘Sì’ perché sento di aver bisogno di quel sì, per essere accettata, per raggiungere un obiettivo, chi deve chiedermi scusa: l’uomo la società o io stessa?
Il problema, infatti, non è soltanto quando si dice sì perché ci si sente costrette. Ci sono spesso dei no che vengono detti piano oppure ci si immagina che il no sia stato detto troppo tardi. All’inizio del romanzo, la protagonista Anna ha 11 anni e viene chiamata alla cattedra da un professore di matematica che le infila la mano nella tasca dei pantaloni. Anna pensa ‘che cosa ho fatto io, perché sono stata chiamata io invece di qualcun'altra’; parte quindi già dal presupposto di aver fatto qualcosa di sbagliato, di essere stata lei la causa di quella situazione. Lo sforzo che dovrà fare nel corso del romanzo sarà capire che non esistono vittime giuste, che vengono aggredite e ne portano i lividi, e vittime sbagliate, responsabili delle situazioni che hanno vissuto. La vittima è vittima ed è tale anche quando ha ceduto e non porta segni di aggressione sul proprio corpo. Comprendere questo significa smontare il discorso sulla vittimizzazione secondaria che si sente ripetere ancora oggi. Quando si dice a una ragazza ‘potevi non bere così tanto’, ‘potevi restare lucida e non ti sarebbe successo nulla’, le si sta gettando addosso la responsabilità di una violenza. Noi donne dobbiamo renderci conto, invece, che alcune cose accadono non per colpa nostra e dobbiamo accedere a una vera consapevolezza del nostro valore. D’altra parte, bisogna far capire ai ragazzi e agli uomini che c’è la necessità di prendere sempre in considerazione il volere altrui e non smettere mai di ascoltare la persona che si ha di fronte. Si tratta, da un lato, di smontare gli stereotipi ed educare al rispetto; dall’altro di aiutare le donne a prendere consapevolezza di sé e smetterla di aspettare scuse che tanto probabilmente non arriveranno mai, ma imparare ad accogliersi, a coccolarsi, a perdonarsi ciò per cui non ci sarebbe nemmeno bisogno di perdonarsi, ad ascoltarsi e a dar voce, a raccontare ciò che è successo.
La linea di confine tra un sì detto per volontà, desiderio, e quello detto perché si riconosce nell’altra figura un potere, a volte è difficile da identificare anche per la donna stessa. Che consiglio daresti alle giovani per riuscire a conservare sempre questa distinzione?
Io ho la sensazione che, in realtà, la percezione profonda di quando si sta di fatto ‘cedendo’ la si abbia. Non c’è una confusione in partenza. Una ragazzina, una donna, sente benissimo quando ha un reale desiderio e quando invece sta cedendo. Il problema, però, è quello di saper dare fiducia a se stesse e non aver paura di dire un NO assertivo quando il desiderio non c’è. Quindi l’unico consiglio che mi sento di dare è questo: darsi fiducia, ascoltarsi e non aver paura perché il proprio desiderio è sempre dalla parte del giusto. Tanto più che, nel momento in cui si cede, prima o poi il proprio corpo chiederà il conto e quindi si diventerà vittime due volte: la volta in cui si è ceduto e tutte le volte in cui il corpo sbatterà in faccia quel dolore che si è ingoiato.