“Il rischio è quello di una normalizzazione, di una banalizzazione della Shoah, e di un’incomprensione di quanto sta accadendo oggi” spiega Daniela Padoan, saggista e studiosa dell’olocausto, dal 23 gennaio in libreria con una riedizione Einaudi di “Una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz: Liliana Segre, Goti Bauer, Giuliana Tedeschi” (prima edizione Bompiani, 2004).
“Ci sono parole – continua Padoan - che vengono usate come insulto contro un nemico politico, avendo perso il senso dell’enormità che contengono. Non dobbiamo rinunciare alla capacità di giudizio e di critica sugli accadimenti di oggi ma, se abbiamo imparato qualcosa dalla storia, abbiamo il dovere di evitare le categorie che includono interi popoli. A dover essere giudicati sono i responsabili delle azioni, e i governi. I crimini compiuti non diventano più facilmente giudicabili se si ricorre a sovrapposizioni storiche, o a quella che il filosofo Leo Strauss chiamò la reductio ad Hitlerum. Occorre evitare le scorciatoie retoriche, e fare fatica per formarsi un’opinione”.
Certo la storia, la memoria potrebbero essere un monito a non ripetere gli orrori del passato. Eppure continuiamo ad assistere a eccidi ed episodi di discriminazione e razzismo. Che valore ha, allora, la testimonianza?
Più che un monito a non ripetere gli stessi errori, o un imperativo morale, il Giorno della memoria è un accogliere il celebre invito di Primo Levi, nella poesia che fa da introduzione a Se questo è un uomo: “Meditate che questo è stato”.Avere la consapevolezza che “questo è stato” significa sapere che nel nostro mondo, nella nostra cultura, non molto tempo fa – nello spazio di tre generazioni– è stato possibile perseguitare, catturare e sopprimere un sesto della popolazione ebraica europea: sei milioni di persone, uomini, donne, vecchi, bambini, appartenenti a una “razza” considerata indegna di esistere e di riprodursi. Un’aberrazione talmente profonda che dovrebbe farci riconsiderare il modo in cui ragioniamo secondo categorie gerarchiche che separano gli esseri umani in base alla nascita, alla cultura, al sesso, alla posizione sociale. La testimonianza della Shoah ci fa capire come è stato possibile, nel giro di pochi anni, procedere all’eliminazione di persone che – benché fino a poco prima fossero state compagni di banco a scuola, vicini di casa, colleghi di lavoro – avevano perso, per legge, lo statuto di dignità dato dalla cittadinanza, fino ad essere braccate, deportate, sottoposte a lavoro schiavo, uccise di stenti, oppure spinte in una camera a gas e ridotte in cenere in un forno crematorio. Chi è sopravvissuto ed è potuto tornare, rappresenta il nostro sguardo nell’avamposto più oscuro del precipizio della nostra stessa civiltà. Ma per capire ciò di cui parlano i testimoni, per non farne un ascolto solo empatico, emotivo, è necessario impadronirsi della storia, comprendere le radici e lo sviluppo del nazifascismo e il suo seguito di massa, la costruzione di quello che, nel cuore d’Europa, è stato “il secolo dei campi”, e la sua successiva rimozione o misconoscimento.
La prima edizione Bompiani di “Una rana d’inverno” risale al 2004, durante il governo Berlusconi. Pochi giorni fa, il suo libro è stato ripubblicato da Einaudi, sotto una nuova destra al potere. Cosa è cambiato da allora? Che percezione c’è oggi di fascismo e antifascismo?
Liliana Segre, che è una delle tre testimoni del libro, ha parlato spesso del “filo nero” che dalle leggi razziali portò alla Shoah, indicando le responsabilità del fascismo, non sufficientemente viste e affrontate, nel precipizio verso lo sterminio, attribuito esclusivamente al nazismo tedesco. Ma italiani furono la Risiera di San Sabba, il campo di Fossoli, i treni della deportazione, la meticolosa burocrazia che aveva individuato e schedato tutti i cittadini considerati di appartenenza ebraica perché venissero deportati. Italiano fu il regime collaborazionista della Germania nazista, la Repubblica Sociale, il cui simbolo, la fiamma tricolore, campeggia ancora oggi nel logo di Fratelli d’Italia.
Vent’anni fa si lamentavano i mancati conti con il fascismo, oggi ci troviamo a fronteggiarne le conseguenze, tanto da veder messo in discussione quello che è il sottotesto di tutta la nostra Costituzione: l’antifascismo.
Di fronte a espresse domande sul tema, le più alte cariche istituzionali restano in silenzio (vedi La Russa, durante la visita dello scorso 15 gennaio al memoriale della Shoah di Milano). Proliferano manifestazioni con il saluto romano e viene messa ancora in discussione l’importanza di date come il 25 aprile. Sembra che manchi una coscienza collettiva comune su quel capitolo di storia italiana. Perché secondo lei?
Nel discorso con il quale Liliana Segre, il 13 ottobre 2022, consegnò la presidenza del Senato a Ignazio La Russa, in coincidenza con il centenario della Marcia su Roma, c’è un passaggio che riguarda la mancanza di questa coscienza collettiva. Le grandi nazioni, disse, dimostrano di essere tali anche riconoscendosi coralmente nelle festività civili, unite attorno alle date che segnano una storia comune e un patto tra le generazioni. In Italia, purtroppo, vengono vissute come “divisive” date che rappresentano la nostra appartenenza repubblicana: il 25 aprile, festa della Liberazione; il primo maggio, festa del lavoro; il 2 giugno, festa della Repubblica. È un segnale preoccupante, di qualcosa che matura al di fuori del nostro retaggio costituzionale.
Nel suo libro, ha scelto di intervistare tre donne sopravvissute ai campi di sterminio. Qual è la specificità della condizione femminile in questo tipo di eventi? Cosa rappresentava il corpo della donna allora e cosa rappresenta oggi, nelle guerre contemporanee?
L’ideologia stessa dello sterminio nazifascista poggiava su matrice sessuata, strutturata sulla cancellazione della donna e della sua capacità di mettere al mondo, di generare (termine che ha la stessa radice di genocidio). La cancellazione di un popolo non poteva che procedere attraverso quella della donna. Ad Auschwitz Birkenau, dove sorgeva il campo femminile, si svolgevano esperimenti sulle prigioniere per testare metodi capaci di indurre sterilità nella “razza indegna di riprodursi” e indurre parti plurigemellari nelle donne di “razza ariana”. Tutto il complesso concentrazionario era pensato per spezzare la dignità e la resistenza di uomini e donne; alle donne era tolta ogni femminilità: rasati i capelli, consegnati abiti incongrui, di taglie volutamente sbagliate, scarpe spaiate, una col tacco e l’altra uno zoccolo. Ai tedeschi era severamente vietato avere rapporti con le donne ebree, per non incorrere nella “contaminazione” genetica, un reato duramente punito che in tedesco si chiamava Rassenschande, “vergogna razziale”. Una situazione molto diversa da quella, pur terribile, che colpisce le donne nelle guerre dove lo “stupro etnico” rappresenta un mezzo di umiliazione o vendetta sul nemico, e al tempo stesso una sorta di “marchio” generativo e genetico.
Tra le testimoni intervistate nel libro c’è la senatrice Liliana Segre, che in un recente discorso sul Giorno della memoria, ha invitato i giovani a una “scelta contro l'indifferenza". Qual è il suo auspicio verso le nuove generazioni?
Il razzismo nasce dall’istituzione di scale gerarchiche tra gli esseri, nello sviluppo di tassonomie settecentesche che, come quella di Linneo, ponevano in cima a una piramide evolutiva l’uomo bianco europeo, sotto di lui il giallo asiatico, il rosso americano, il nero africano, più sotto ancora una via di mezzo tra uomo e animale – l’uomo teratologico, o mostruoso – e infine le scimmie antropomorfe. Ma le soglie sono friabili e la storia ha dimostrato come è facile spingere l’umano verso l’animale: è quello che ha fatto il nazifascismo, che equiparava alcuni esseri umani a parassiti, topi, scarafaggi, animali di cui era non solo possibile ma necessaria l’eradicazione. Dovremmo invece educarci a sentire l’altro, riconoscerlo come simile, vederne la bellezza, la stranezza, l’alterità, esserne incuriositi senza limitarci a ciò che più ci assomiglia: pensare come vicino tutto il vivente. La distruzione della natura, la scomparsa di infinite specie animali e vegetali è un altro genere di sterminio, dato dalla cecità, dall’aver ridotto a merce, consumo, oggetto, qualcosa che contiene in sé un’unicità, un valore immenso che ci nutre e ci costituisce: i ghiacciai, i mari, le estensioni di foreste. Se pensiamo a come stiamo perdendo tutto questo, a una velocità sconsiderata, capiamo che nella nostra cultura c’è qualcosa che va profondamente ripensato: una voracità cieca, una convinzione di avere diritto a possedere, usare, togliere la vita senza rispetto. Con indifferenza, appunto.
Al ventesimo compleanno di questo suo libro, “Una rana d’inverno”, cosa si augura?
Che continui a far risuonare la voce delle testimoni, a far vivere le figure di cui parlano, a volte meravigliose, altre terribili. A darci un appiglio di comprensione perché non si dimentichi che “questo è stato” e a far nascere in chi legge il desiderio di conoscere di più, leggere, studiare, immaginare, visitare i luoghi, chiedendosi come sia stato possibile. È un interrogativo che, una volta entrato in noi, non ci abbandona, è un compagno buono, una bussola che ci aiuta a non farci ingannare dalle retoriche del potere.