Quando si riceve un’offesa sui social e non si è educati al distacco, la giornata può essere compromessa e ogni età ha il suo grado di intensità emotiva nella reazione all’offesa. Cosa consigli all’utente che deve continuamente difendersi dai veleni della rete?
Io credo che sia impossibile non sentirsi male o a disagio davanti a qualcuno che ti offende, anche se è una persona che non conosci. E credo che anche la razionalità funzioni fino a un certo punto, nel senso che uno può ragionare e dire “è una persona che non mi conosce: perché il suo giudizio dovrebbe offendermi?”, però poi, all’atto pratico, qualsiasi parola brutale provoca delle ferite, è inevitabile. Per quanto mi riguarda, l’unico modo che ho trovato per stare meno male è quello di chiedermi se ho davvero bisogno di interagire con quella persona, sennò, se è il classico giantizio della rete che semplicemente ce l’ha con me per motivi non ben identificati, lo blocco.
Penso che la nostra sanità mentale passi anche dalla possibilità di sceglierci, di scegliere con chi interagire e chi lasciar perdere, perché proprio non ci interessa.
La rabbia è un sentimento antichissimo, pensiamo al solo fatto che è la prima parola greca ad introdurre l’Iliade, perché la menis di Achille scatena tutto, ma poi Omero ci insegna che Achille placa la sua ira praticando l’empatia (pensiamo all’incontro con Priamo). Questa è la soluzione da sempre e per sempre? Praticare l’empatia, anche e soprattutto sui social, riduce la rabbia?
Non condivido tanto questa celebrazione dell’empatia, perché in realtà noi non possiamo davvero sapere come stanno gli altri. Quando qualcuno ti dice “so come stai” …no: non lo sai, perché io sono io e tu sei tu, quindi non possiamo pensarla allo stesso modo, non puoi sapere come sto. Più che l’empatia, allora, io direi che serve praticare la simpatia, cioè la capacità di soffrire insieme, accanto all’altro e la simpatia passa moltissimo da una cosa che facciamo troppo poco, che è l’ascolto.
Forse dovremmo parlare di meno, scrivere di meno e ascoltare di più.
Perché le parole della sorella e del papà di Giulia Cecchettin hanno sollevato tanto dire? Perché non siamo universalmente pronti a riconoscere le parole giuste? Sembra che il social alimenti la contraddizione ad ogni costo: è così?
Penso che il problema con le parole di Gino e Elena Cecchettin sia che loro non si sono comportati da parenti della vittima ‘tradizionali’: non si sono strappati i capelli, non erano stravolti in pubblico, si sono presentati in maniera anche abbastanza curata nell’aspetto e questo, nell’agiografia ufficiale della persona che soffre, non è ammesso, perché il parente della persona morta deve essere distrutto dal dolore, ripiegato su sé stesso, portare anche fisicamente i segni del dolore su di sé. Il fatto che loro abbiano deciso di trarre qualcosa dalla tragedia capitata a loro, di dire qualcosa che fosse utile anche per le altre persone è forse un pensiero troppo complesso per una società che è abituata a dare dei giudizi apodittici al primo sguardo sulle persone. Abbiamo troppo la tendenza a tenere il ditino alzato nei confronti del prossimo.
La cronaca legata alla ragazza vittima di violenza nel processo a Ciro Grillo ha posto i fari sulle domande senza scrupolo dell’avvocata di uno degli indagati; per fortuna alcune voci consapevoli hanno sollevato lo scandalo. Perché la mancanza di scrupolo verbale è così radicata? C’è un patriarcato inconsapevole che agisce ancora senza neanche rendersene conto? O c’è (che poi è anche peggio) sempre intenzionalità?
Intanto l’avvocata, anche se deprecabilmente, fa il suo dovere: deve difendere il suo cliente. Quindi io non sono neanche così sconvolta dalle parole dell’avvocata, perché non è la prima volta che si sente parlare di interrogatori scomodi, sgradevoli, che cercano di deformare la realtà, purtroppo questo è come funzionano i dibattimenti in tribunale. Quello che mi stupisce è come queste parole vengono recepite: bisognerebbe che più persone si rendessero conto che l’avvocata, per quanto deprecabilmente, fa il suo lavoro, ma che queste non sarebbero le domande da fare a una donna vittima di violenza, invece anche fuori dal contesto molto particolare del dibattimento in tribunale, queste sono le domande che vengono fatte a donne soggette a violenza: chiedere com’era vestita, perché non ha resistito. Lì c’è anche un problema di mentalità e la mentalità molto diffusa è che se una donna chiude le gambe non viene stuprata.
C’è un rapporto tra parola e corpo? Le parole negative, i commenti negativi sui social hanno evidentemente un’influenza sullo stato di salute di chi le riceve?
Sì. Ne sono sicura. Leggevo ultimamente, anche se non ho sottomano le fonti, che ci sono anche degli studi sulla neurofisiologia del cervello che ci dicono che effettivamente le parole negative, offensive lasciano dei solchi sulla superficie del cervello. Le parole non fanno male solo a livello di parola, ma anche a livello di fisico.
Noi siamo il precipitato di tutto quello che ci accade e il nostro corpo conserva memoria delle cose belle e brutte che ci accadono, e in quelle cose belle e brutte rientrano anche le parole, quindi hanno un peso fisico, una conseguenza nel mondo reale. Non sono mai ‘solo’ parole.
Lanciamo l’ennesimo, ma importantissimo, appello: quanto conta la piccola rivoluzione linguistica? Quanto conta cambiare il linguaggio in famiglia, nelle aule, al supermercato? Per esempio, abituarsi a non dire ‘matrimonio’, evidentemente in contrapposizione con ‘patrimonio’, ma ‘unione’, oppure praticare i femminili singolari, per citare un tuo libro, praticare l’uso dello schwa in una mail professionale …insomma quanto conta scegliere?
Io penso che il ruolo del singolo nei cambiamenti sociali viene spesso sottostimato, in realtà è centrale e lo è anche a livello linguistico. Se si cambiano le parole della propria quotidianità, si può cambiare anche la società stessa. Io più che occuparmi di come parlano gli altri, mi occuperei di come parlo io e di cosa posso fare io a livello linguistico, per cambiare magari in meglio delle visioni stereotipate.
Grazie, Vera, per questo scambio.
Grazie a te!