Che relazione c’è tra CEO e influencer? Sono ruoli spesso correlati? Oggi sembrano esserci sempre meno report economici e sempre più necessità di contenuti social: è così?
Sicuramente è sempre più evidente che in una cultura dominata dall’immagine, anche in senso buono, cioè una cultura in cui è diventato una norma esporsi, condividere con gli altri, essere visibili (e quindi anche un po’ vulnerabili) per quello che si è, al di là del proprio ruolo, insomma in un contesto in cui le persone sono abituate ad essere in mostra, è inevitabile che le stesse si aspettino anche dalle aziende, che fanno parte della loro quotidianità, di sapere chi c’è dietro; quindi c’è da un lato la volontà di coerenza, di walk the talk, come si dice in gergo anglosassone, e dall’altro la volontà di sapere chi è che ci mette la faccia. Non parliamo oggi di influencer così come lo intendevamo una volta, cioè come testimonial, quale poteva essere Giovanni Rana, che faceva la pubblicità dei suoi tortellini: il fatto che il proprietario ci mettesse la faccia “rassicurava” il compratore, c’era peraltro la volontà di voler raccontare la storia di un’azienda di famiglia, e in qualche caso, quando i personaggi erano noti, c’era anche la volontà di adottare delle scorciatoie, per cui la notorietà del personaggio consentiva al prodotto e al brand di acquisire notorietà a loro volta; oggi nelle persone c’è proprio voglia, o abitudine se vogliamo, di capire con chi hanno a che fare, di antropomorfizzare brand e prodotti. Questa cosa è vera per prodotti di largo consumo e meno vera per aziende che hanno logiche diverse, per cui è meno probabile che il CEO di un’azienda che fa componentistica industriale senta la stessa necessità (o che i suoi clienti abbiano lo stesso tipo di richiesta) di un’azienda che produce prodotti e/o servizi che fanno parte della quotidianità delle persone.
È possibile oggi diventare promoter di un brand o di un’azienda, pur non avendo eccezionali doti comunicative e retoriche? La qualità è a rischio? Il titolo di studio anche?
No! (risata)
Per fortuna il paradosso di un mondo in cui conta così tanto l’apparenza è che abbiamo scollinato la fase in cui puoi fingere di avere sostanza. Mentre, fino a qualche anno fa, si poteva con maggiore disinvoltura “incipriare” (in Inghilterra dicono put the lipstick on a pig, mettere il rossetto sul maiale), ossia ricorrere ad una soluzione cosmetica, fare finta che le cose siano meglio di quello che sono, oggi devo dire che questa sovraesposizione mediatica fa sì che a un certo punto i nodi vengano al pettine, Ferragni docet. Quindi di fatto la sostanza poi conta. Poi, tu puoi dire: se sei l’AD di un’azienda di prodotti di largo consumo, se i clienti si aspettano che tu ci metta la faccia e se devi essere visibile, come fai, se non hai doti comunicative adeguate? Eh, è tosta: per un po’ la puoi aggirare (comunichi più per iscritto che in video, comunichi su Linkedin, fai dei video brevi, ti fai aiutare da professionisti, da coach…insomma si può ovviare), però, soprattutto per aziende molto esposte, è vero che le persone si aspettano ormai sempre più che ci sia un CEO mediatico, dunque si aspettano sostanza, oltre che apparenza. Quindi non credo che la sostanza sia a rischio.
Dopo il caso Ferragni, l’Agcom ha deciso di operare per limitare il potere degli influencer: quanto pensi sia importante questo intervento e perché molte testate lo stanno vendendo come fittizio?
Ho sempre fatto un parallelismo tra influencer e testimonial, è però evidente che un personaggio noto associato ad un prodotto crea la scorciatoia: si accelera la notorietà, la reputazione di un prodotto o servizio, in ragione della potenziale notorietà del personaggio. Questa è la scorciatoia più evidente quando il testimone è noto, e vale nel lancio di mercati, prodotti, etc. Però, quando il testimone non è noto (è un attore che interpreta un personaggio, ad esempio), quali sono i rischi? Ricordi il personaggio, ma non ricordi il prodotto (la cosiddetta cannibalizzazione), oppure accosti il personaggio al prodotto e questo accostamento si consolida e sfocia in un’identificazione del personaggio col prodotto. Ecco, se quel personaggio finisce col fare delle cavolate (e.g. è coinvolto in situazioni discutibili, criminali, poco in linea con i valori del prodotto, etc.), questo produce una serie di conseguenze negative, che si riverberano inevitabilmente su tutto ciò a cui quel personaggio è associato. Questa dinamica è amplificata rispetto al passato, proprio perché viviamo in una vetrina ed è amplificata sia nel caso della scorciatoia positiva che in quello della scorciatoia negativa (scandali). Perché allora gli influencer sono così importanti e perché è così importante che ci sia una regolamentazione? Perché, in un mondo e in un mercato globale e globalizzato, in cui posso comprare quello che voglio quando voglio (a prescindere da chi sia il venditore e da dove sia localizzato), si genera una entropia e un cosiddetto ‘paradosso della scelta’, tale per cui, per ognuno dei nostri bisogni, abbiamo una molteplicità clamorosa di prodotti e servizi che rispondono a quelle esigenze. E allora come scegliamo? Su alcune categorie, possiamo avere una competenza specifica: se devo comprare una tavola da snowboard e lo pratico da trent’anni, la so scegliere, ma se devo comprare una penna o un orologio e la mia competenza è minore, allora come scelgo? Scelgo grazie a dei curatori, e questi curatori possono essere o dei brand di cui mi fido o, come si faceva una volta, vado da un bottegaio, o consulto dei siti specialistici che riportano recensioni o, e qui arrivo al punto, consulto l’influencer che mi ispira fiducia, che si fa curatore tra la domanda e l’offerta. E tanti influencer, Ferragni in primis, sono ormai diventati a tutti gli effetti dei trader, degli intermediari, per cui mi fido del prodotto che vendono, perché mi fido del personaggio. Nel momento in cui il personaggio crea una frizione e questa fiducia viene tradita, come è successo di recente, i rischi sono enormi. Ora le critiche si stanno accavallando, da ultimo ho letto di questa azienda americana, che aveva prodotto una bambolina e devoluto in beneficenza il ricavato delle vendite, la cui CEO ha dichiarato di non avere mai avuto la Ferragni tra i suoi record e di non aver mai ricevuto donazioni da lei. Allora qualcuno comincerà ad avere il sospetto che ci sia recidiva e, se questo si dovesse dimostrare, ciò potrebbe distruggere, lo dico senza mezzi termini, il tutto, perché il tutto poggia su pilastri fatti di immagine: non c’è una sostanza a prescindere, cioè la Ferragni non è riconosciuta come un’astrofisica con competenze tecniche talmente spiccate che, se anche accade una cavolata dal punto di vista dell’immagine, chi se ne importa, andiamo avanti. Per questo per lei il rischio è altissimo.
Il portale Inbeat.co, che si occupa anche di micro-influencer, ha effettuato una ricerca da cui emerge che migliaia di follower della Ferragni cominciano ad essere dei fake-followers: la popolarità può essere falsata? Insomma nel digitale le bugie hanno le gambe corte e la comunicazione funziona a lungo termine solo se è veritiera?
Come nelle relazioni tra persone, le relazioni tra persone e brand si basano su dei pilastri che esistono da quando esistono l’uomo e la donna. Cioè, se un amico, che conosco da dieci anni, è ancora mio amico, è perché nel tempo non ci sono state frizioni tali da compromettere la nostra relazione; poi posso frequentarlo di più o di meno, posso raccomandarlo più o meno, mi può capitare di parlarne di più o di meno, di citarlo, vederlo di più o di meno, ma se la relazione c’è nel lungo periodo, vuol dire che io e questa persona abbiamo ancora una condivisione valoriale, abbiamo ancora ricordi ed esperienze che ci tengono uniti e non ci sono state frizioni che hanno compromesso il rapporto. Nella relazione coi brand funziona uguale, perché gli esseri umani conoscono un solo modo di stabilire relazioni, ed è questo. Nel momento in cui una frizione si verifica, perché un amico mi parla alle spalle o fa delle dichiarazioni che non sono allineate coi miei valori, perché ad esempio sponsorizza un evento che è contrario al mio sistema valoriale, diventa il brand elettivo di un gruppo sociale per me non interessante et similia, a quel punto io non voglio più essere associato a quel brand o a quella persona. Quindi, per rispondere alla tua domanda, assolutamente sì: più crei una frizione, più questa frizione è potente, più la relazione rischia di essere compromessa per sempre. Per andare nello specifico sì, ahimè, esistono (seppur sempre meno) e sono esistiti modi di comprare follower. Ora, la soglia tra comprare follower e utilizzare bene gli strumenti del digitale è sottile. Mi spiego: io ho fatto un TedX che ha superato il milione di visualizzazioni su YouTube, per cui sono orgogliosissimo dell’idea che un milione di persone abbia visto il mio video; dall’altra parte, siccome sono addetto ai lavori, so perfettamente che non tutte queste persone hanno effettivamente guardato tutto il mio TedX, perché YouTube considera una view dopo un certo numero di secondi. Allora, se io sono in vena di vanity metrics, racconto a tutti che il mio TedX ha fatto più di un milione di visualizzazioni, ma nel mio intimo e quando parlo con colleghi, so bene che probabilmente solo la metà lo ha visto tutto. Allora, questo modo di aggirare il sistema di calcolo e raggirare chi mi segue, perché in realtà chi lo ha visto veramente rappresenta la metà delle visualizzazioni dichiarate, può essere discutibile, ma comunque non mi sentirei a disagio; se invece io avessi preso uno di quei chatpot che compaiono a destra e a manca e ti generano fake-followers, allora lì non solo mi sentirei a disagio, ma mi sentirei anche un farabutto. Quindi, attenzione a non fare di tutta l’erba un fascio, perché ci sono oggi delle modalità di promuovere video e/o contenuti in generale e di veder salire le visualizzazioni che non sono necessariamente una frode, ma sono dei modi che gli esperti conoscono di girare intorno a delle metriche.
I micro influencer sono molto interessanti in questo momento, e probabilmente sono il futuro prossimo dell’influencer marketing, perché le persone, in un contesto come questo, scottate dalla vicenda Ferragni, in un mercato incerto, dove c’è la recessione, dove viene meno la fiducia, è piuttosto probabile che si fidino di più di un micro influencer. Porto l’esempio su me, così almeno non cito terze parti: se Giuseppe Stigliano, che ha 35.000 follower su Linkedin, mi dice la sua opinione e io sono suo follower, probabilmente sono interessato a questa opinione più che a quella di chi ha 300.000 follower, ma poi tende a essere poco coerente. Quindi l’effetto che potremmo immaginare come conseguenza del caso Ferragni è un minore seguito nei confronti dei macro influencer e una maggiore attenzione per i micro influencer, che sono un po’ più rilevanti per i loro gruppi di riferimento, perché basati su una sostanza, su una reputazione, su una comunicazione trasparente, su autenticità.
Quindi dobbiamo augurarci più CEO competenti e meno influencer per il futuro?
(risata)
Quello devono augurarselo in primis le aziende! Se abbiamo un CEO che non è competente ed è solo influencer, è ben difficile procedere.
Sei preoccupato per la formazione degli attuali adolescenti, dei nativi digitali che pendono dalle labbra degli influencer? C’è più strumento che genera meno consapevolezza o più consapevolezza che creerà più strumenti e quindi faciliterà la vita futura? Qual è la tua visione?
(sospiro)
Questi sono nati nell’acqua. Se tu chiedi ad un pesce com’è l’acqua, il pesce non ti sa rispondere. Visto con gli occhi di un immigrante digitale, ti dico… cavoli, io son cresciuto per strada giocando a pallone, sbucciandomi il ginocchio, litigando con i ragazzi più grandi che volevano sottrarci il campo, solo perché noi eravamo più piccoli e dovevamo andare via e ho imparato delle dinamiche sociali, confrontandomi con delle persone a volte anche prepotenti, e queste relazioni si consumavano nella vita vera e mi hanno reso la persona che sono, nel bene e nel male. Se queste relazioni fossero state filtrate ogni volta da uno schermo, da un social o da qualsiasi altro strumento digitale (perché la discussione non sarebbe avvenuta sul campetto, ma ad esempio via whatsapp o nel sito dove ci si mette d’accordo su chi deve usare il campo), e se quindi questo accade a qualunque relazione (amorosa, conflittuale, amicale…), quando poi si consuma, nel fisico, è appunto già stata filtrata, perché ci siamo già detti tutto quello che ci dovevamo dire, saltiamo i preliminari, diciamo così…questo ha un effetto sulla socialità? Se i contenuti vengono fruiti in modalità snack, perché così ci abitua TikTok e quindi non ci sono più lunghi format e la gente non legge più libri e giornali, questo ha degli effetti sulla capacità di concentrazione delle persone? Ovviamente sì alla prima domanda e sì alla seconda domanda. Questo produrrà una civiltà di idioti? Non lo so. Sennò facciamo come quelli che dicono ‘si stava meglio, quando si stava peggio’. Ti faccio un esempio, per chiudere: è stato scientificamente dimostrato che i chirurghi, micro chirurghi di questa generazione, che hanno trascorso molto tempo giocando con videogiochi, hanno una maggiore e migliore capacità e velocità di reazione in situazioni critiche e complesse e una maggiore velocità di comunicazione tra la mente e gli arti, in particolare le loro mani, che usano negli interventi. Il tutto deriva dal fatto che hanno utilizzato molto i joystick in infanzia e adolescenza e che i videogiochi ti abituano a quella connessione tra il cervello e le mani, che determina una rapidità di esecuzione del pensiero e questo, per certi lavori, diventa un vantaggio competitivo. Ora, qualcuno avrebbe mai potuto ipotizzare che quel ragazzino nerd, che passava le giornate a giocare al videogioco, ad usare il joystick, sparando velocemente agli alieni, sviluppando la sua connessione tra il cervello e il braccio, un giorno avrebbe trasformato questo nel suo vantaggio competitivo nel mondo professionale, diventando uno dei migliori chirurghi del mondo? Ragazzi miei, è difficile prevederlo, perché ci sono troppe variabili in gioco. Quindi, che ci sia una oggettiva influenza di questa vita, in cui siamo immersi nel digitale e sempre più nel virtuale, sul modo in cui ci comportiamo, è indubbio. Che questo debba necessariamente spaventarci, mi pare sbagliato come approccio. Che questo debba essere però osservato, monitorato e regolamentato è sacrosanto, perché è talmente potente, e qui arrivo anche ai ChatGPT di questo mondo, l’impatto che queste cose possono avere, che non ci possiamo permettere di lasciarle svilupparsi liberamente, a prescindere dal nostro intervento.
Giuseppe, grazie di cuore per questo scambio. Ci vediamo al festival!
Grazie a te, e a presto!